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La memoria fin dai tempi antichi veniva considerata non solo una capacità utile a chi praticava un lavoro intellettuale ma era vista anche come una virtù morale che permetteva di trasmettere e di salvaguardare l’eredità spirituale dell’umanità. Le "artes memoriae" conobbero uno sviluppo particolare durante tutto il medioevo e l’arrivo della stampa non significò affatto un loro declino. Durante tutto il Cinquecento i trattati venivano stampati in tutta Europa, accompagnati spesso da illustrazioni destinate ad aiutare la “fissazione” dei "loci". Un accesso più ampio al libro stampato spinse pure gli autori a produrre le versioni dei trattati nelle lingue volgari. Tommaso Garzoni nella sua descrizione delle professioni e degli stati più diversi dà, sul finire del secolo ("La Piazza universale di tutte le professioni del mondo", prima edizione 1585), un ruolo importante ai professori di memoria e Lodovico Dolce, uno dei più moderni e prolifici collaboratori editoriali vide il suo dialogo sulla memoria (un adattamento del "Congestiorum artificiosae memoriae" di Johannes Romberch) ristampato ben quattro volte (negli anni 1562–1586). Il testo è ancora oggi uno dei più diffusi nelle collezioni dei libri antichi, in Italia e all’estero. Il paradossale ruolo della stampa, quello di mantenere l’uso delle idee più diffuse e più tradizionali attraverso una nuova tecnologia, si fa notare in questo caso in modo particolarmente palese. Quando invece l’arte della memoria cessa di essere semplice strumento di lavoro e specchio fedele di un mondo conosciuto e ordinato, quando essa viene percossa dalle ambizioni di capire il mondo, di penetrare i suoi misteri, di trovare le parentele con la cabala e con le pratiche combinatorie, allora comincia tutta un’altra storia, quella di voler creare mondi artificiali e anche quella della modernità delle scienze.